“Corruru e affustigau”. Chi ha tradito gli operai del Sulcis?

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Di Daniela Soru – iRS Sulcis

Da queste parti, nel Sulcis ma non solo, si dice così, ad uno che oltre ad essere vittima di una sventura viene pure punito per la stessa: “corruru e affustigau!”, e corruru è colui che subisce un tradimento.

Questa è la sorte che oggi è toccata agli operai Alcoa, recatisi a Roma.

E tutto è andato, in effetti, secondo un copione consueto ai sardi, che siano pastori, agricoltori, minatori o operai: slogan di rabbia, risposta armata!I sardi sono sempre tornati a casa con un cerottino per una ferita che negli anni è andata allargandosi.

Appare sempre più certo che le manifestazioni non siano più un mezzo efficace per cambiare lo status quo, anzi pare piuttosto che esse tendano a rafforzarlo, finendo per essere occasioni che danno spazio ai politici, ai rappresentanti dei lavoratori e delle istituzioni, in breve a tutti coloro che in piccola o gran parte manovrano le leve di comando.

Messa in altri termini, noi sardi andiamo a supplicare il carnefice affinchè ci faccia ancora una promessa di buoni propositi, cosi da potergli concedere altra fiducia e, dunque, una nuova chance per farci del male. Nello scenario attuale nessuno in realtà può ergersi a messia e promettere la salvezza: se una salvezza c’è, la strada che vi conduce sarà ardua e lunga e sicuramente non passa da Roma.

Davanti a questa crisi dobbiamo innanzitutto porci delle domande.

La prima è: chi ha tradito gli operai del Sulcis? Ma poi, chi ha tradito il Sulcis?

Forse quella morte preannunciata e rimandata, di anno in anno, di sei mesi in sei mesi… Forse stavolta è arrivata davvero e, come ogni morte, ci coglie alla sprovvista. Nel caso Alcoa, però, è doveroso ammettere che si è avuto  tutto il tempo per renderla meno dolorosa e per preparare una transizione, una riconversione a miglior vita. Ma questo non è stato fatto.

Quando si dice per umanizzare la lotta operaia, che dietro ogni posto di lavoro all’Alcoa c’è una famiglia, bisognerebbe completare il quadro e rendere giustizia anche a quegli anonimi senza categoria: dietro ognuno di loro c’è una famiglia che forse non si realizzerà mai.

Ed è così che questa crisi è diventata anche generazionale: da una parte ci sono i giovani di 20-30 anni che nemmeno sanno che sapore abbia il rischio di perdere un posto di lavoro, dall’altra parte della frattura ci sono tutti quelli che sono andati in prepensionamento perché le fabbriche, diciamocelo, sono in crisi da sempre, ci sono i cassintegrati che arrotondano con “lavoretti” in nero, ci sono quelli cui è toccata la mobilità, e poi ci sono infine quelli che rischiano oggi di perdere un lavoro che a stento si è tenuto in piedi fino ad oggi: grazie alle piogge di sovvenzioni pubbliche, e chiudendo un occhio (e pure l’altro) sull’inquinamento causato dagli stabilimenti.

La situazione è forse talmente tragica che tra poco, nessuno potrà più permettersi di solidarizzare con un suo amico, fratello, compaesano, perché ognuno sarà troppo impegnato a solidarizzare con sé stesso, nella sua lotta per la sopravvivenza.

Visto con questi occhi, sembra proprio un far-Sulcis, dove si sta combattendo ogni giorno la peggior guerra che esista: quella tra poveri. Viene naturale pensare a quel “divide et impera” che mira a rendere le persone facilmente ricattabili e disposte ad accettare le peggiori condizioni: in fondo il Sulcis è ancora un territorio poco sviluppato in alcuni settori, una specie di terra di frontiera ancora da conquistare. Il far-Sulcis.

Il Sulcis è stato tradito da chi nel passato ormai remoto e irrimediabile ha impiantato le fabbriche tra le più inquinanti e nocive non solo per l’ambiente ma per gli stessi lavoratori, molti dei quali ci hanno rimesso la salute, a volte la vita. Il Sulcis è stato tradito da chi ha promesso il benessere economico in cambio dell’uva al piombo, dell’amianto, delle polveri e dei fanghi rossi: il benessere economico è ancora lontano, se il Sulcis è classificato come la provincia più povera d’Italia.

È arrivato il momento di pensare ad oggi e a ciò che può essere fatto per domani!

Gli operai sono stati traditi da coloro che avevano l’autorità, oltre che il dovere e la responsabilità, per elaborare una via di scampo per i lavoratori e per la riconversione del polo industriale di Porto Vesme: il piano B.

In un dossier curato da iRS e pubblicato nel 2009 tuttora scaricabile cliccando qui.

si era già messo in evidenza il livello di inquinamento a livello atmosferico, di falda acquifera e del suolo, giunto a livelli tali da compromettere la salute degli abitanti delle aree limitrofe al polo, nonché la produzione vitivinicola e l’allevamento. I danni arrecati all’ambiente e agli esseri viventi non sono stati mai ricompensati da un ritorno economico.

Il polo di Porto Vesme, come emerge dallo studio sopra citato, ma anche da altri studi condotti dall’Università di Cagliari, è giunto ad una soglia limite di compromissione del territorio e della salute dei suoi abitanti, tale che ci si è scontrati con un paradosso terribile: ci si trova a lottare per salvare dei posti di lavoro che sfamano famiglie ma nuocono alla salute delle stesse e di quelle a venire.

È necessario lottare per far sì che l’Alcoa, andandosene, rispetti il principio del “chi sporca pulisca”, che predisponga le risorse economiche necessarie ad organizzare la bonifica delle parti dello stabilimento che verranno comunque dismesse, ad esempio.

La sede di questa lotta ad ogni modo non può più essere Roma, ma la Sardegna stessa, e a contrattare le condizioni dovrebbero esserci istituzioni vicine al territorio che ne abbiano realmente a cuore la salvaguardia. Manca in questa vicenda una parte che rappresenti genuinamente e saldamente le istanze della Sardegna e dei Sardi, manca un’istituzione sarda realmente sovrana che decida con responsabilità e autorevolezza le sorti del proprio territorio e del proprio popolo.

Oggi più che mai occorre un governo dei Sardi, per la Sardegna, perché fino ad oggi si è avuta grande abbondanza, a destra e a sinistra, di politici prezzolati, incapaci di progettare un futuro sostenibile e durevole per Porto Vesme, capaci solo di usare il polo industriale come una banca di voti di scambio, accecati anch’essi dall’abbaglio di arrivare a Roma.

Ed è da lì, da quelle poltrone di prima classe che hanno guardato impotenti l’epilogo della vertenza Alcoa e le manganellate contro gli operai traditi, ai quali devono, in gran parte, la loro morbida poltrona.

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