“Sardigna nel sacco”. Un’intervista a tutto campo a Franciscu Sedda dell’Esecutivo di iRS

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05/03/2008

“Oltre alle servitù militari italiane – ricordiamo che la Sardegna, che è un 3% dello Stato italiano ospita il 63% delle basi militari e vi si esplodono l’80% degli ordigni sperimentati in Italia – e la “ricchezza” elargitaci attraverso lo smaltimento di rifiuti – una specie di destino del rapporto fra Sardegna e Italia se si considera che “Sardigna” in italiano antico era sia la Sardegna che il nome dell’immondezzaio fuori dalle mura cittadine aprire un qualsiasi dizionario per verificarlo – noi stiamo assistendo, al di là di tutto ciò, da anni a una profonda spoliazione di materie prime” – Franciscu Sedda dell’iRS (indipendèntzia Repùbrica de Sardigna).

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INTERVISTA PUBBLICATA DA PALAMITONEWS.COM
di Paola Marras

Strano destino quello della Sardegna. Da una parte essere considerata come una delle più belle terre del mondo, dall’altra portare lo stesso nome che un tempo veniva usato per indicare le discariche poste fuori le città.

E così, per non far torto alla lingua italiana, i nostri lungimiranti politici da ormai molti anni l’hanno eletta come deposito privilegiato di ogni possibile rifiuto del “continente”, e non solo. Per cercare di capire a fondo la situazione che sta vivendo la nostra Sardigna (in attesa di uno speciale tutto dedicato a lei) abbiamo intervistato Franciscu Sedda, fondatore e membro dell’Esecutivo Nazionale di iRS, (indipendèntzia Repùbrica de Sardigna), da sempre impegnata in difesa della dignità del popolo sardo.

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DOMANDA
Prima di tutto, vorremmo far capire ai nostri lettori, sardi e non, la tradizione di indipendentismo che l’iRS porta avanti. Ci può raccontare i momenti chiave dell’indipendentismo sardo e il vostro progetto politico?

RISPOSTA
“Intanto un saluto a tutti i vostri lettori e le vostre lettrici, sardi e non, da parte mia e di iRS.
Potremmo riassumere la risposta dicendo che iRS ha 5 anni di vita e 5000 anni di storia. Vale a dire che nel momento della fondazione di iRS ci siamo posti l’obbiettivo di offrire ai sardi qualcosa di politicamente nuovo e contemporaneamente capace di ricollegare il presente del popolo sardo al meglio della storia della nostra nazione.
Quando parlo di una novità politica intendo esattamente una novità rispetto a quello che era lo stereotipo dell’ “indipendentismo” che la maggior parte dei sardi avevano – a torto o a ragione – in testa. Uno stereotipo peraltro ancora vivo, duro a morire.

iRS è nata passando “a contropelo” tutta l’esperienza recente dei movimenti così detti indipendentisti. È stata una specie di auto-analisi quella che abbiamo fatto prima di fondare iRS. E di questo abbiamo sempre fatto un nostro punto di forza: la sfida più grande infatti non è dire agli altri di cambiare ma avere il coraggio di cambiare se stessi. Questo è il vero esempio di cambiamento che si può offrire agli altri, è il modo migliore per dare coraggio, per far capire che ogni trasformazione è possibile. Analizzando la nostra situazione ci siamo accorti che mancava un indipendentismo capace di unificare i sardi su di un progetto chiaro ed entusiasmante: la costruzione della Repubblica di Sardegna, capace di entrare nel mondo da protagonista, capace di esaltare il meglio di noi stessi, come sardi e come esseri umani.

Inoltre ci siamo resi conto di quanta rassegnazione ci fosse nei più anziani, cresciuti in partiti che avevano tradito la loro passione indipendentista o nemmeno l’avevano presa in considerazione; ci siamo resi conto di come alcuni di noi si trovassero sviliti ed impossibilitati ad esprimere una reale politica indipendentista nei movimenti in cui si trovavano; ci siamo resi conto di quanto poco i giovani – i giovani che identificavano nella Sardegna la loro nazione e avevano voglia di cambiarla – si identificassero con i movimenti esistenti, spesso percepiti come arretrati e folkloristici.

Il punto però non è stato quello di distruggere ciò che c’era, che continua ad esserci e continua a percorrere la sua strada, ma riuscire a creare qualcosa di nuovo. Qualcosa che fosse di stimolo per tutta la società sarda. Qualcosa che offrisse la possibilità di un salto verso un altro modo di vedersi, pensarsi, agire.
Al fondo, ciò che abbiamo voluto creare è un movimento che fosse capace di essere indipendentista dalla testa ai piedi, senza alcun timore o vergogna, un movimento che fosse capace di essere indipendentista oggi, in tempi di complessità e globalità. In tempi in cui la diversità culturale, la conoscenza, l’inventiva, potrebbero essere per la prima volta nella storia la più grande ricchezza economica e in cui invece dominano ancora egoismo, violenza, ingiustizia, razzismo.

Da tutte queste prese d’atto è nata la nostra idea di un indipendentismo moderno, nonviolento e non-nazionalista.

Con questi termini iRS ha lanciato una sfida a se stessa e al resto della Sardegna. Una sfida ad uscire dallo stereotipo del sardo che per compiacere se stesso ma soprattutto gli altri si atteggia da “duro”, da “orgoglioso”, ma che alla fine non riesce a produrre e nemmeno a proporre alcun cambiamento reale. Che alla fine si ritrova “orgoglioso e integrato”, che potrebbe essere il corrispettivo sardo dell’italico “cornuto e mazziato”.

Noi sappiamo che volgiamo una società in cui la violenza sia minimizzata se non completamente esclusa: e una società di questo tipo, una società giusta, una società positiva e propositiva, non si può ottenere con la violenza. Siamo stanchi di odi e di tragedie, vogliamo una società solare come la nostra terra, vogliamo una società in cui a dominare sia l’aspetto gioioso e autoironico dei sardi. Poche altre terre hanno così tante feste e così tanto belle come la nostra nazione e noi vogliamo che il futuro, che la Sardegna futura, sia come una grande festa in cui tutti partecipano all’organizzazione e tutti insieme si godono la riuscita. Perché non dovremmo valorizzare questo nostro aspetto invece di continuare a pensarci tristi e miseri? Non sarebbe forse un modo migliore di porsi nel mondo? Un modo migliore per affrontare le sfide che il mondo ci pone?

Dicendo indipendentismo non-nazionalista abbiamo voluto rompere qualsiasi legame con atteggiamenti di chiusura, di passatismo, di paura della diversità e di infantile autocompiacimento nei confronti di se stessi. L’idea è accettare la sfida della globalità contemporanea e pensare se stessi come “esseri umani sardi”, come persone che a partire dalla loro terra devono realizzare una più alta forma di umanità, devono contribuire a migliorare il genere umano. Ogni volta ricordo a me stesso che quando dico “la mia Terra” sto dicendo la Sardegna, sto dicendo il Mondo.

Il nazionalismo da questo punto di vista è un cancro, o comunque una forma di deresponsabilizzazione: per questo noi non lo concepiamo nemmeno strumentalmente, come invece è avvenuto e avviene per altri movimenti politici indipendentisti in Sardegna e in Europa. Il punto è che noi siamo per la nazione sarda ma non per il nazionalismo sardo. Per quanto la cosa possa oggi apparire sottile, disabituati come siamo a riflettere su noi stessi, essa è invece profonda e decisiva. Se la si volesse mettere in altri termini, più generali, si potrebbe dire che la nostra filosofia è “essere sempre per qualcosa e non contro qualcuno”.
Il punto è che così come non crediamo che tutto ciò che fanno glia altri sia buono e sia da accettare acriticamente così non possiamo nemmeno credere che tutto ciò che hanno fatto e fanno i sardi sia di per sé umanamente buono. Non crediamo alla retorica dei sardi buoni e degli altri cattivi.

Anche per questo non crediamo che essere sardi sia qualcosa che sta nel DNA, che sia qualcosa di innato, che sia una specie di merito eterno. Del resto se essere sardi fosse stato un così grande e innato privilegio oggi non ci troveremmo nella condizione in cui siamo: una condizione che è invece in buona parte responsabilità dei sardi. Anche se su questo bisognerebbe fare dei distinguo, perché “essere sardi” oramai è un’affermazione talmente generica che si dovrebbe specificare “quale tipo di sardi” hanno responsabilità negative e quali meno.
Tuttavia noi crediamo che ciascuno, qualunque cosa abbia fatto, può partecipare all’indipendenza nazionale: è proprio nell’impegno personale che ciascuno salda il proprio debito con la sua terra. Non ci servono processi sul passato ma un processo di impegno nel presente verso il futuro. Nell’agire indipendentista ognuno redime e ritrova se stesso. Nell’agire indipendentista i sardi ritrovano la fiducia e l’autostima collettiva.

Per tutto questo noi di iRS abbiamo fatto nostra la frase di Jean-Marie Tjibaou, leader indipendentista del popolo kanak, che diceva “la nostra identità è davanti a noi”. E questo significa che dobbiamo essere noi sardi, tutti insieme, a immaginare e costruire una società diversa, una cultura nuova, un’economia più giusta”.

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DOMANDA
L’iRS ha un osservatorio culturale, “antropologico” e linguistico sulla Sardegna? A che punto è la desardizzazione dell’Isola?

RISPOSTA
“La situazione è molto complessa e meriterebbe riflessioni molto lunghe e approfondite. Del resto il lavoro sul campo, fra i sardi, ogni giorno, ci offre continui spunti di riflessione. Quello che noi notiamo e cerchiamo di far notare è la mancanza di una coscienza nazionale e dunque di una coscienza di unità, una coscienza che porti i sardi a percepirsi come una collettività che ha condiviso e deve continuare a condividere un percorso, dei diritti collettivi, un bene comune.
I sardi hanno una scarsissima memoria delle parti positive del loro passato e questo rinforza in loro un senso di rassegnazione, sudditanza, disfattismo: la famosa massima “pocos, locos e male unidos” ripetuta a cantilena da tutti è la prova di questa ignoranza del proprio passato libero.

Del resto c’è stata e continua a esserci in Sardegna una vera e propria rimozione o distorsione storica. Pensiamo soltanto al trattamento svilente che ancora oggi si offre al patrimonio nuragico e giudicale, o alla lingua sarda, che molti ancora definiscono “dialetto” e non riescono a concepire come un mezzo di comunicazione ufficiale e moderno all’interno di un quadro plurilinguistico. Un esempio su tutti potrebbero essere i Giganti di Monti Prama, quasi 40 statue alte fino a 3,60 metri scoperte nel Sinis più di 30 anni fa e ancora oggi chiuse dentro uno scantinato della sovrintendenza di Sassari. Statue nuragiche (per lungo tempo fatte passare per fenicie, ovviamente) del 1100 avanti Cristo che rivoluzionerebbero la storia sarda e mediterranea e che vengono invece tenute nascoste, verrebbe da dire “sequestrate”, da dei sardi che non vogliono correre il rischio, parole loro, che i sardi – intesi come popolo – “si esaltino”.

Davanti a queste ed altre follie viene da chiedersi: “Cosa ci è successo? Cosa ci ha portato a questo atteggiamento così auto-distruttivo? A questa mancanza di autostima per le cose che ci parlano del nostro passato di nazione?”
La risposta di iRS è semplice e non va ricercata né in tare ataviche né in fatti immemorabili. Ha piuttosto a che fare con avvenimenti recenti e con un fraintendimento che bisogna definitivamente cancellare: vale a dire l’idea che il sardismo e l’Autonomia siano qualcosa di positivo, qualcosa che è nato per valorizzare la cultura sarda e il desiderio di libertà dei sardi.

Quello che oggi appare sempre più evidente è che fra le due guerre si è consumato in Sardegna un vero e proprio dramma collettivo: davanti alle attese di cambiamento delle masse dei sardi, sempre più sfiduciate verso lo Stato italiano, si è prodotta una lacerante umiliazione collettiva. Una umiliazione collettiva – una specie di rito di autodegradazione – che è stato così efficace e potente perché a promuoverlo sono state quelle figure che incarnavano l’attesa del cambiamento, quelli che ancora oggi vengono definiti i nostri “Padri”. Vorrei ricordare a tutti una semplice verità, quella verità che sta a fondamento della nostra identità (e della nostra schizofrenia) attuale: i fondatori del sardismo e dell’autonomia (Bellieni, Lussu ecc.), fra le due guerre, teorizzarono infatti che la Sardegna era una nazione abortiva e mancata, una nazione fallita. Davanti a chi gli chiedeva se era possibile trasformare il consenso che avevano in mano in un processo di costruzione nazionale i fondatori del sardismo risposero che noi sardi non potevamo essere indipendenti perché eravamo “irrimediabilmente sardi”, ovvero avevamo bisogno di una civiltà esterna che ci redimesse dalla nostra barbaricità; o ancora arrivarono a dire che il nostro problema era l’ostinazione a non voler ammettere che eravamo un popolo collettivamente fallito e che così doveva essere né poteva essere altrimenti.

E da questa sorta di auto-razzismo culturale discendeva ovviamente anche il corollario socio-economico: ovvero che noi, come sardi, eravamo impossibilitati a produrre il nostro futuro, il nostro benessere e, dunque, dovevamo chiedere l’aiuto di qualcun altro, dovevamo metterci sotto l’ala di un qualche nazione culturalmente ed economicamente superiore per non restare o diventare dei morti di fame.

Ecco il fondamento della “desardizzazione” del popolo sardo. Un fondamento molto più sottile e problematico di qualunque “colonizzazione” esterna. Un fondamento duro da ammettere – proprio com’è difficile ammettere e denunciare una violenza domestica, che si compie “in famiglia”, fra le mura di casa – ma con cui prima o poi tutti i sardi dovranno fare i conti: sono stati coloro che siamo abituati a credere ci abbiano meglio rappresentato, quelli che vengono continuamente venerati nei discorsi autonomisti, a proclamare quel “sciogliete le righe”, quell’abdicazione alla diversità di cui oggi paghiamo i danni. Il punto dunque è che l’Autonomia è nata anti-sarda, è nata come anti-virus al sentimento e alla coscienza nazionale sarda e per questo in cinquant’anni non ha prodotto alcun processo di acquisizione di sovranità politica, di dignità culturale, di capacità economico-produttiva.

Per questo iRS nasce rifiutando di inserirsi in quella tradizione sardista di cui tutti, compresi i movimenti che si definiscono indipendentisti, si fanno vanto. iRS non è sardista. Non è sardista perché non ha alcun senso pensare di fondare un indipendentismo credibile e vincente su una tradizione che nelle parole e nella azioni ha proclamato che la Sardegna è e deve essere una “nazione fallita”: Sarebbe come costruire una casa sulla sabbia, come dar vita a un gigante coi piedi di argilla o forse ad un mostro tipo Frankenstein.
Anche per questa ambiguità, per questo nodo irrisolto, per questa confusione mentale, finora l’indipendentismo non è andato da nessuna parte e non è riuscito a diventare il motore propulsore di una rinascita civile, culturale, sociale, economica della Sardegna: partendo dal presupposto di un fallimento non si possono produrre successi.

Fortunatamente oggigiorno una parte sempre maggiore di sardi è disposta a fare seriamente e serenamente i conti con la propria storia, anche con le ferite più brucianti. È davvero entusiasmante ad esempio vedere così tanti giovani che vivono tranquillamente la contemporaneità portandosi appresso o riscoprendo la cultura dei loro avi, rielaborandola in modo originale, dandogli il valore e la dignità di una cultura nazionale che vuole entrare in Europa e nel Mondo a testa alta. Tradurre la tradizione, tradurre l’alterità: questo è quello che continuamente diciamo e facciamo noi di iRS. Bisogna avere memoria di sé, portarsi appresso il proprio passato, ma non come un feticcio da adorare acriticamente, ma come una risorsa da mettere in gioco continuamente, come qualcosa di vivo, qualcosa a cui dobbiamo dare vita e da cui dobbiamo trarre vita, continuamente. Avere 5.000 anni di storia sulla propria pelle, avere così tanta cultura sul proprio corpo, può bloccare e diventare pesante solo se non si ha il coraggio di essere rispettosamente creativi, profondamente creativi. Oggi più che mai la rielaborazione della nostra cultura e il confronto con le altre culture può essere la nostra ricchezza. Il fattore centrale del nostro benessere, in ogni senso”.

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Isgàrrica s’artìculu: 2008-03-05 – “Sardigna nel sacco”. Un’intervista a F.Sedda

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