I Sardi e una disputa culturale. Inseguendo Atlantide

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di Franciscu Sedda

Chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo. O meglio, è condannato a ripetere le sue perversioni. Lo hanno detto in molti e sicuramente qualcuno lo deve aver saputo anche in Sardegna: ma se ne è dimenticato. Del resto una parte dei sardi non ha ancora un gran rapporto con la memoria: diciamo pure che come collettività non sappiamo accumulare bene il tempo e non sappiamo diventare forti attraverso questa accumulazione.
D’altronde la Sardegna, la sua conformazione politico-identitaria, è stata fino ad oggi sconvolta da numerosi tsunami: non le onde d’acqua di questi tempi ben presenti nell’immaginario e al centro di un’aspra polemica a colpi di libri, articoli, lettere, punti fermi e liste firmate. Su quell’onda tanto controversa forse un giorno avremo più certezze e potremo dire con più serenità se qualcuna tempo fa si è abbattuta anche sulla Sardegna. No, la nostra geologia intima è stata sconvolta da secoli di “tsunami culturali”, da onde apparentemente innocue ma interiormente devastanti. Onde capaci di umiliare, di deprimere, di togliere ogni fiducia in sé, di bloccare ogni spinta all’azione e al cambiamento, di levare il terreno sotto i piedi alla possibilità di un auto-riconoscimento collettivo del popolo sardo.
È di questi tsunami dell’anima che si prendeva gioco il povero Sergio Atzeni, travolto da un’onda vera mentre cercava di resistere alle onde della meschinità intellettuale. Forse qualcuno lo ricorda mentre passando leggero irrideva gli storici sardi divenuti savoiardi che scrivevano la storia per convincere i sardi stessi che tutto erano, proprio tutto, fuorché sardi.
E Atzeni non inventava o mitizzava: basta leggersi Manno e seguirlo nelle sue contorsioni retoriche e mentali, nelle sue goffe piroette da scrivano ufficiale, quelle che lo fecero arrivare a dire che in fondo se qualcosa di buono c’era nei “rozzi” nuraghi era perché in Sardegna ce li avevano portati i fenici. Sarà per questa servile genialità che la via più centrale di Cagliari gli è ancora intitolata? Quanto dovremo aspettare prima di poterla dedicare ad Atzeni?
È questa strana storica perversione che ritorna e stona in questo appello intellettuale a stringere i ranghi contro un’immagine della Sardegna madre mediterranea, contro la “svalutazione del grandioso fenomeno storico della colonizzazione fenicia e punica” (così c’è scritto), contro i possibili entusiasmi dei sardi (così si lascia intendere). Stona ed inquieta perché è una ripetizione di una ripetizione, soltanto più raffinata: riecheggia i padri dell’autonomismo sardo quando, incapaci di essere altro, nei primi decenni del ‘900 chiedevano ai sardi di prendere atto della barbaricità e pochezza dei Giudicati e di festeggiare i domini successivi, dai catalani in poi, come “un vero trionfo dell’intelligenza”.
Stona perché, è evidente, non si disputa se la Sardegna fosse Atlantide-Atlantide, si disputa sul fatto se la Sardegna sia stata “un’Atlantide”, vale a dire un posto di cultura e innovazione, un punto di riferimento per altri popoli, una collettività che partecipava al mondo in modo attivo, dando e prendendo, mischiandosi, cambiando e sempre rimanendo se stessa. Si disputa se il passato della Sardegna sia stato diverso dall’immagine triste e rozza che per secoli gli tsunami culturali auto-imposti ci hanno regalato. Si disputa in definitiva se ci sia stata e ci possa essere in futuro una Sardegna diversa da quella che c’è oggi, da quella che una parte dei sardi hanno tristemente interiorizzato.
“Atlantide” qui è come la “Rivoluzione” per Kant: il simbolo grandioso e spettacolare di “una partecipazione di aspirazioni
un focolaio di entusiasmo”. Oggi non si disputa di Atlantide e del passato, si disputa della Sardegna e di noi stessi, della possibilità di scoprirci davvero.

25/01/2005

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Isgàrrica s’artìculu: 2005-01-25 – I Sardi e una disputa culturale. Inseguendo Atlantide

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