La rivoluzione in Sardegna si chiama ”indipendenza”

0

 

Rivoluzione nel senso comune sottende una ribellione, del popolo contro il proprio governo, accompagnata da uno stato d’animo rabbioso e feroce contro l’oppressore. La prima e più nota rivoluzione che ci torna alla mente è quella francese, impetuosa contro i reali di Francia, con la presa della Bastiglia e le sanguinolente decapitazioni terminate poi con l’avvento della repubblica. Rivolte fulminee che cambiano gli assetti politici di un’intera nazione nel giro di pochi giorni.

La rivolta dei Ciompi, gli scardassieri della lana, in una Firenze trecentesca in piena crisi economica, ci ricorda come può sfumare rapidamente, causa disorganizzazione e conflitti interni, il sogno di ribellione di un popolo mal governato. Nel 1378 nella città toscana i Ciompi, ormai divisi e incapaci di gestire il potere, furono cacciati dopo pochissimi mesi di governo.

Il parallelo odierno con la rabbia che attraversa la Sardegna è fin troppo scontato. E’ palese che l’isola viva in una condizione di povertà estrema e che sia governata da una R.A.S. incapace di affrontare ciascuno dei problemi che ogni giorno si acuisce senza che vi si trovi una soluzione credibile.

E’ in una situazione simile che nasce il movimento dei forconi in Sicilia: rincaro benzina, precariato, vertenza entrate. Un movimento dibattuto che però non può rappresentare la complessità delle problematiche sarde. Ciò che caratterizza la Sardegna è l’immobilismo di una parte della società che passivamente rimane a guardare il disfacimento totale della propria terra. Si tende però inverosimilmente a sognare la rivolta islandese contro il sistema bancario o quella siciliana contro il proprio governo senza rendersi conto di avere a disposizione le stesse possibilità degli altri.

La vera rivoluzione per questa meravigliosa isola posta al centro del Mediterraneo potrà avvenire solo se si svilupperà una cultura diffusa della progettualità che non potrà non essere in sintonia con la consapevolezza che i modelli e i processi di sviluppo non potranno essere più imposti dall’esterno come è da sempre avvenuto.

Storicamente le crescite demografiche sono accompagnate da quelle economiche, e se ci accorgiamo che in Sardegna, il rapporto nascite/morti è negativo, ossia i sardi sono sempre meno, possiamo velocemente comprendere una delle cause del declino sociale. La crisi industriale preannunciata da almeno quindici anni, e l’assenza di politiche di autosufficienza del settore secondario dove l’imperativo era affidare e imporre esclusivamente la produzione dei beni a multinazionali estere, ora più che mai va a inserirsi in una situazione di crisi globale in cui ci troviamo più impreparati di altri. Le rivendicazioni dei viaggi a Roma del “se per piacere potete moderare sa tirannia” d’altro canto, aggiungono disperazione a disperazione e rilevano l’assenza della volontà da parte del sardo di comprendere chi siamo e cosa possiamo fare per noi, volontà sempre delegata a chi non ha interesse a difendere diritti altrui.

E’ impensabile d’ora in poi basare l’economia di un’intera regione come il Sulcis o la Nurra, esclusivamente sugli stipendi che sono elargiti da società private pronte a fare armi e bagagli in pochi mesi dimenticandosi sbadatamente di bonificare le aree inquinate.

Il futuro della nazione sarda dovrà riscoprire la dignità e la professionalità dei propri operai.

Le politiche agro-pastorali del tutto assenti denotano una scarsissima lungimiranza e conoscenza delle dinamiche mondiali, che vedono nella decrescita sostenibile il cardine dell’economia del nuovo secolo. Possiamo già intuire il problema patologico di una regione che importa carni, latte e prodotti della terra da mezzo mondo e paradossalmente dedica ettari di terreni incolti alla “piantagione” di pale eoliche e campi fotovoltaici.

La grande distribuzione ampiamente agevolata dalle giunte comunali, è autorizzata a vendere al consumatore finale acque francesi, carni spagnole e formaggi tedeschi. Intanto settantamila aziende sarde iscritte a ruolo presso Equitalia, molte delle quali a conduzione familiare, sono costrette a licenziare per tentare di sanare i debiti contratti e nello steso tempo subiscono il pignoramento di case, capannoni e terreni di proprietà.

Ri-generare la Sardegna, cioè pensare un modo diverso di vivere il futuro, conservando ciò che di valido abbiamo, ossia il capitale sociale, le nostre intelligenze, e affrontare di petto tutte le questioni che hanno spinto l’isola sull’orlo del baratro, tra cui l’industrializzazione selvaggia irrispettosa dell’ambiente e dei suoi operai, le innumerevoli concessioni edilizie agli imperatori del mattone, le negligenze sanitarie nelle aree militari.

Ora le proteste sono cariche di rabbia e questo è comprensibile ma è evidente che da qui in avanti la rivolta fine a sé stessa non sarà più sufficiente se nel contempo non facciamo tutti uno sforzo per pensare soluzioni e alternative per immaginare una Sardegna migliore.

L’indignazione e la protesta conquistano le strade e le piazze ma saranno inutili se non accompagnate da un progetto serio, elaborato e condiviso che contenga in sé la possibilità di autodeterminarsi, di essere pienamente responsabili per le proprie scelte.

E’ necessario che il diritto, legittimo e necessario, alla resistenza civile e non violenta si doti di un orizzonte politico chiaro, che per la nostra terra è la costruzione di una repubblica libera, indipendente e aperta al mondo.

Alessandro Derrù – iRS Porto Torres –

Share.

Leave A Reply