“Il Giornale” intervista Franciscu Sedda. Testo integrale

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25/10/2008

A cura di Marilena Spataro

Quale è il fondamento storico e sociale della causa indipendentista sarda?

Il primo fondamento è la diversità culturale dei sardi, una diversità che si è riprodotta anche dopo le dominazioni e le acculturazioni più dure, una diversità che rinasce ogni volta, metabolizzando i lasciti e producendo sintesi originali, ovvero una coscienza nazionale che riemergendo fa sentire i sardi un popolo a tutto tondo.

Il secondo fondamento è la consapevolezza del costante rapporto fra indipendenza, prosperità, apertura e democrazia. Se guardiamo ai momenti di libertà, realizzata o ricercata, dei sardi e li compariamo con quanto succedeva loro attorno – penso all’unità dei sardi in epoca nuragica (fra il 2000 e il 1000 a.C. circa), all’epopea medievale della nazione sarda guidata dai giudici di Arbarée, alla rivoluzione repubblicana e antifeudale di fine ‘700 – ci rendiamo conto che si trattava di momenti di partecipazione, di creatività, di elaborazione di forme di democrazia e economia adeguate alle esigenze del territorio e delle persone.

E questo ci porta al terzo fondamento. La sconfitta violenta di queste esperienze ha corrisposto a fasi di regressione sociale. I sardi, quando perdono l’indipendenza, si trovano impossibilitati a tutelare se stessi, i loro diritti così come i loro interessi economici.

Perché per la Sardegna si è parlato fin dall’inizio d’indipendenza e non di autonomia o separatismo come è accaduto, dopo l’unità d’Italia, e in vari momenti storici, per altre regioni italiane?

Forse perché chi osserva la Sardegna dall’esterno non può fare a meno di notare questa alterità dei sardi, la presenza di una differente cultura nazionale – almeno “in potenza” – che legittima la volontà di sovranità e autodeterminazione. Ogni persona onesta si rende conto che l’indipendenza della Sardegna non è “separazione” da alcunché ma è “liberazione”, affermazione del diritto di un popolo alla piena espressione di sé. Non si tratta di staccare un braccio a un corpo omogeneo ma di liberare un altro corpo che è tenuto immobile.

Viste le premesse storiche su cui si fonda l’indipendentismo sardo, non pensa che rivendicazioni dello stesso genere potrebbero essere avanzate da tutte quelle regioni che hanno fatto parte del regno delle due Sicilie? Dal suo punto di vista simili rivendicazioni potrebbe considerarsi legittime?

A dire il vero mi pare che dentro lo Stato italiano una chiara “storia di nazione” come quella di cui sto parlando la abbiano principalmente la Sardegna e l’Italia. Certo ci sono altri casi, come il Friuli e la Sicilia ad esempio, che meriterebbero di essere analizzati meglio. Quello che mi interessa ribadire è, in primo luogo, che per iRS l’indipendenza della Sardegna non fa parte di un processo di disgregazione dell’Italia: iRS non vuole distruggere l’Italia ma vuole creare la Sardegna.

In secondo luogo iRS si batte contro la xenofobia, il razzismo, l’egoismo, la chiusura nazionalistica o localistica e questo la pone naturalmente in antitesi a chiunque si professi o agisca secondo quei valori.

Esistono movimenti indipendentisti di paesi stranieri cui il movimento iRS s’ ispira o che prende a modello?

Bisogna ascoltare l’umanità, le molte unità che popolano il pianeta, perché c’è intelligenza in ogni parte del mondo. E a noi serve tutta l’intelligenza del mondo – dovunque si produca – per costruire una nazione diversa, una società migliore. Noi vogliamo che la nostra repubblica indipendente sia un esempio di creatività: vogliamo nutrirci e ospitare la creatività degli uomini per poter creare e donare a nostra volta esempi di umanità e universalità.

Se restringiamo il campo alle nazioni in lotta per l’indipendenza esempi interessanti ci arrivano dalla Catalogna e dalla Scozia, coi cui movimenti abbiamo profondi rapporti di collaborazione e amicizia. Quelle esperienze ci testimoniano di un indipendentismo che è saputo ripartire praticamente da zero e oggi è a un passo dal traguardo; un indipendentismo che ha agito per via politica e che propone un modello di società aperta, inclusiva, rispettosa della diversità e del pluralismo; un indipendentismo determinato nel conseguire la meta ma al contempo pragmatico, capace di dare risposte ai problemi sociali concreti, capace di governare e di governare bene.

Quali sono gli elementi che caratterizzano il movimento di cui lei è uno dei fondatori rispetto agli altri movimenti o partiti nati sulla spinta delle istanze indipendentiste dell’isola?

La diversità di iRS è data dall’insieme delle scelte che abbiamo fatto e facciamo. Alcune si riassumono nell’idea di un “indipendentismo nonviolento e non nazionalista”, che indica una sorta di “ideologia al futuro”, una ideologia che definisce i nostri contorni senza determinare in modo definitivo i nostri contenuti. La scelta nonviolenta, chiara, determinata, gioiosa, è stata una specie di boccata d’aria.

Prima di iRS gli altri movimenti si barcamenavano nell’ambiguità, si atteggiavano da duri perché così voleva il cliché o perché gli sembrava una debolezza dirsi nonviolenti, e questo allontanava la grande massa dei sardi che giustamente non vuole partecipare a una lotta fatta di tragedie e violenze. Noi invece lo abbiamo detto chiaramente: noi vogliamo generare vita, senso, felicità, noi siamo per una politica propositiva, noi non siamo contro qualcuno ma per qualcosa.

Noi siamo felici di essere nonviolenti. E così per il “non nazionalismo”, un concetto che abbiamo elaborato per distanziarci da qualsiasi forma di passatismo, di chiusura, di folklorismo, di celebrazione acritica della tradizione, di paura dell’alterità, di orgoglio arrabbiato e aggressivo: la nostra identità è davanti a noi, è nel modello di società che insieme progetteremo e costruiremo, questo dice iRS prendendo le distanze da ogni forma di indipendentismo autoritario e settario.

E nondimeno il nostro vuole essere un indipendentismo coerente e deciso al massimo livello: per questo noi rifiutiamo di inserirci nella tradizione del sardismo a cui gli altri indipendentisti si ispirano più o meno apertamente. Come si può produrre un serio indipendentismo richiamandosi a una tradizione politica che ha teorizzato che la Sardegna è una “nazione fallita”? Come si può costruire la casa indipendentista cercando fondamento in quel movimento politico e ideale che quando ha avuto in mano le sorti della Sardegna ha convinto i sardi che erano un popolo necessariamente “sconfitto” che doveva smetterla di ostinarsi a credersi “nazione”?

Il nostro rifiuto del sardismo, e del rivendicazionismo economico che lo accompagna – l’idea che bisogna apparire cattivi per farsi trattare meglio dallo Stato – traccia una distinzione netta con gli altri movimenti: e ciò non solo a livello ideale ma anche nel momento delle scelte elettorali. Il sardismo infatti non ha mai smesso di allearsi con chiunque capitasse in nome di un pragmatismo che però non ha prodotto un grammo di coscienza nazionale.

iRS inoltre ha la pretesa di essere un movimento indipendentista dalla testa ai piedi, mentre spesso invece, negli altri movimenti convivono anime diverse, indipendentiste, autonomiste, federaliste che finiscono per generare una politica ambigua, priva di forza e di coerenza. Noi invece siamo serenamente e apertamente indipendentisti: noi non parliamo di unità ma la pratichiamo, noi non inseguiamo la chimera di un’unità elettoralistica ma vogliamo creare le condizioni di un’unità di popolo, fra i sardi, attorno a un progetto chiaro, che è la costruzione della Repubblica di Sardegna in forma democratica e nonviolenta.

Non c’è il rischio che le divisioni tra i sostenitori dell’indipendentismo e la nascita di più movimenti diano luogo a una dispersione di forze che renda più lontani gli obiettivi da raggiungere?

Io credo che qualunque sia il giudizio che si dà sui singoli partiti o movimenti il pluralismo internamente all’ambito indipendentista sia necessario: è necessario per offrire alla valutazione dei sardi più modelli di indipendentismo in cui potersi rispecchiare e identificare. Non siamo tutti uguali, non partiamo tutti dagli stessi assiomi, non abbiamo tutti lo stesso metodo, non portiamo avanti tutti le stesse idee sociali. E poi a volte, addirittura, dietro le dichiarazioni di “indipendentismo” si nascondono forme aggiornate di federalismo.

Dunque è giusto che i sardi possano scegliere quale indipendentismo vogliono. iRS sarebbe ben felice che nascessero altri movimenti indipendentisti sinceri e coerenti. Il compito attuale dei movimenti indipendentisti è di crescere mettendosi alla prova della società sarda. Prima succederà e prima si creeranno condizioni nuove, magari favorevoli a unioni o alleanze fatte su basi nuove e progetti comuni. Ma l’unità non si fa a priori ma a posteriori, o meglio, in itinere: è qualcosa che si consolida durante il percorso, dando prova concreta di comunanza di valori e intenti. Altrimenti è solo alchimia politica o disperazione personale.

Oggi, secondo lei, oltre all’ iRS, quali sono gli altri movimenti che possono dare un contributo concreto alla causa dell’indipendenza sarda? E quali quelli che hanno esaurito la loro spinta ideale?

La costruzione dell’indipendenza è un processo così grande e così collettivo che nessuno vi è escluso. L’indipendenza per noi è un processo generale di crescita qualitativa dei sardi, della loro consapevolezza e della loro capacità di agire in modo sovrano e creativo. Nessuno può essere escluso da questo processo perché è soltanto nel processo di costruzione nazionale che ciascun sardo riscopre se stesso e ritrova fiducia nelle sue possibilità. Il cammino indipendentista, l’impegno indipendentista è una specie di grandi catarsi collettiva: si salda il debito contratto nel passato facendo qualcosa di buono nel presente. Si fanno i conti con i propri limiti e umilmente si cambia.

Finisce il tempo del prendere, del depredare la Sardegna per egoismo o ignoranza, e inizia il tempo del dare, del donare alla propria terra e alla propria collettività. Finisce il tempo della sfiducia fra vicini e inizia quello della fiducia che unisce una nazione. Finisce il tempo del conflitto fra poveri per un tozzo di pane e inizia la cooperazione per poter vivere tutti meglio. Questo è quello che conta. E per arrivare a questo io credo che un indipendentista serio debba resistere alla tentazione di omologarsi allo stereotipo e al ruolo dell’indipendentista arrabbiato che ragiona con la pancia piuttosto che con la testa e il cuore, che vive di sbalzi d’umore e passa dall’orgoglio acritico della mattina alla depressione fatalista del “siamo sempre stati dominati, siamo pochi e disuniti” la sera.

Bisogna lavorare quotidianamente, con le braccia e con il cervello, per dar forma a una nuova nazione. Ma questo, come vede, è un monito che io faccio a me stesso, a iRS. La vera sfida è cambiare se stessi non dire agli altri di cambiare.

Secondo lei i cittadini sardi da quali di queste forze indipendentiste si sentono maggiormente rappresentati, e quanto effettivamente loro stessi sono indipendentisti?

iRS rappresenta sicuramente la forza indipendentista più radicata e conosciuta, che ha rappresentanti nelle istituzioni – come Gavino Sale, consigliere provinciale a Sassari – e su cui si concentrano oggi le maggiori attese da parte di quei sardi che credono profondamente nell’indipendenza. Si tenga conto che iRS ha solo 5 anni di vita – “5 anni di vita e 5000 anni di storia”, mi piace dire – e che dunque sta in realtà ancora seminando.

Credo che per veder maturare l’ “effetto iRS” sulla società sarda, e raccoglierne tutti frutti in termini di consenso, ci vorranno altri 15 anni, ma è un tempo politicamente fisiologico, soprattutto quando si vuole evitare il populismo e la banalizzazione e proporre una politica fatta di complessità e sfumature, una politica con un’etica. Ciò che già oggi si nota è che i giovani, o comunque molte personalità dinamiche, sono attirati dal nostro indipendentismo. iRS sta abbattendo i vecchi cliché del sardo rozzo e fatalista per portare aria nuova, per disperdere paure e dubbi sedimentati.

iRS sta rompendo i vecchi schemi che ci imprigionavano, sta facendo una politica realmente differente e questo ha creato attorno ad essa una opinione pubblica favorevole, che simpatizza e che prima o poi non potrà che impegnarsi o appoggiarci apertamente. Credo che per capire quello che iRS ha fatto siano significative le parole che l’attuale governatore Renato Soru ha pronunciato durante la sua partecipazione alla festa annuale di iRS nel 2006. Oltre a riconoscere l’eccezionalità dell’evento, della sua presenza in un consesso in cui erano radunati i dirigenti indipendentisti sardi, catalani, scozzesi, baschi e corsi, Soru ha affermato di voler rispondere alla sfida che iRS aveva lanciato alla Sardegna e ai sardi. Credo che sia stato un riconoscimento, voluto o meno, del ruolo di avanguardia che iRS sta svolgendo. Per quanto quantitativamente piccola nei consensi elettorali iRS, la politica di iRS, è già oggi riconosciuta come qualitativamente decisiva.

iRS con il suo agire stabilisce un parametro e un faro della politica sarda che ha a cuore la sovranità e il benessere dell’isola. Questo garantisce che se c’è dell’indipendentismo sepolto nei cuori dei sardi noi lo risveglieremo, se non c’è lo faremo nascere. La storia recente della Sardegna ha depositato molta cenere sul fuoco della passione indipendentista, sulla nostra memoria di nazione, ma noi siamo pronti a far scintillare i tizzoni sepolti o, se serve, ad accendere un fuoco nuovo, che scaldi i cuori e disperda il freddo della rassegnazione, della sfiducia, della paura.

Gli ultimi risultati elettorali non sembrano sostanzialmente discostarsi molto dal dato nazionale. Come mai?

I motivi sono molti. In primo luogo c’è la sostanziale denazionalizzazione prodotta dallo Stato italiano e dall’autonomismo sardo. A questa poca memoria di sé, alla poca cura per la difesa dei propri diritti e i propri interessi, si aggiunge una invasione dell’immaginario politico e mediatico che fa dell’Italia e dei suoi conflitti l’unica priorità. A queste due tendenze corrispondono, per così dire, la “sindrome della Brigata Sassari” e la “sindrome del voto utile”. Il sacrificio per l’Italia per dimostrare che si è leali e integrati, la rassegnazione a giocare il gioco che i media propongono come decisivo anche se ci si rende conto che sarà inutile per il miglioramento della situazione sarda.

In tale contesto non va sottovalutata tra l’altro la strategia dei partiti unionisti, sia di centrodestra che di centrosinistra, che in campagna elettorale sfoderano la retorica dell’“orgoglio identitario”, e spesso persino della “sovranità” e della “nazione sarda”, in modo da creare un effetto nebbia o tampone rispetto ai possibili slanci indipendentisti di parte dell’elettorato di base. C’è infine da considerare un certo disprezzo dell’indipendentismo a causa dell’immagine che questo ha subito o si è meritato durante il secolo scorso in cui è stato spesso associato a estemporaneità, velleitarismo, personalismo, folklore, arretratezza, violenza.

A questa distorsione si somma la non conoscenza di quanto di nuovo si muove in Sardegna. iRS sa di dover lavorare intensamente sul territorio e nei media per spiegare le proprie ragioni, far conoscere il proprio progetto, far emergere le novità di stile, linguaggio, proposta che la caratterizzano e che, secondo me, ne fanno il primo movimento indipendentista che ha tutte le carte in regola per conquistare la fiducia dei sardi e poter cambiare la storia della Sardegna.

Se il processo di riforme dello stato andasse in una direzione federale anche dal punto di vista istituzionale, oltre che fiscale, avrebbe ugualmente senso che i sardi continuassero a rivendicare una volontà indipendentista?

La differenza che passa fra il federalismo e l’indipendenza è uguale a quella che passa fra il riscuotere le tasse per conto di un altro e il decidere da sé quale sistema fiscale si vuole adottare. Il federalismo può anche, strumentalmente, servire ad aumentare le quote di competenze e autogoverno di un territorio ma ciò non cancella le motivazioni storiche, sociali e culturali alla base della volontà di indipendenza di un popolo.

Da più parti si mette in discussione l’utilità dell’esistenza delle regioni a statuto speciale allorché andrà in vigore la legge sul federalismo fiscale. Lei e il suo movimento che ne pensate in merito?

Quello che iRS pensa è che, qualunque cosa decida di fare lo Stato, se la classe politica sarda fosse minimamente matura e seria dovrebbe aprire un tavolo di trattative esclusivo per la Sardegna. Un tavolo che riguardi solo ed esclusivamente la ridefinizione momentanea del rapporto fra Sardegna e Italia: un tavolo in cui siano in gioco la possibilità di riscrivere lo Statuto sardo sulla base del concetto di “sovranità” (libertà negata dalla Corte costituzionale), la possibilità da parte del governo sardo di determinare proprie misure fiscali se non un vero e proprio sistema fiscale sardo (libertà sostanzialmente negata col rigetto della così detta “tassa sul lusso”), possibilità per i sardi di avere una propria rappresentanza nel parlamento europeo (negata da anni dall’accorpamento della Sardegna nel collegio con la Sicilia) e così via. E invece gli unionisti dei due schieramenti si attengono agli ordini e aspettano che qualcuno da Roma dica loro di che morte la Sardegna deve morire.

In uno scenario internazionale e nazionale in via di radicale mutamento rispetto alla realtà del dopoguerra, quando si affermarono le prime rivendicazioni e i primi partiti indipendentisti, pensa che sia ancora attuale ostinarsi a rivendicare l’indipendentismo per la Sardegna?

La verità è che gli Stati indipendenti sono in continua crescita. I cinquant’anni appena passati sono stata l’epoca di creazione della maggior parte degli Stati indipendenti che compongono l’ONU e questo trend continua ancor oggi. Non solo continuano a ottenere l’indipendenza popoli più piccoli del popolo sardo (la metà degli Stati del mondo è più piccola della Sardegna) ma oggigiorno divengono Stati anche territori che hanno ben poca storia e ben poco diritto. Insomma, oggigiorno l’unica cosa insensata per delle nazioni storiche come la Sardegna, la Catalogna, la Scozia è non avere uno Stato proprio. Oggi gli “anormali” sono i popoli senza Stato. Tanto più che essere uno Stato sembra uno dei pochi modi per poter partecipare ai giochi della geopolitica globale. Prendiamo solo un esempio. Malta non ha certo più storia della Sardegna, ha 300.000 abitanti, non ha certo giacimenti di petrolio o chissà quale ricchezza eppure esiste: esiste, insegna la sua storia, promuove la sua lingua, decide la sua fiscalità, ha la sua flotta aerea e la sua squadra nazionale. E ancora partecipa all’Unione Europea con sei eurodeputati e con tutti i diritti e le possibilità conseguenti. E come Malta ci sono altre piccole nazioni, pensi alla Slovenia o all’Estonia, che sono entrate recentemente in Europa e possono dire la loro. Dunque, siamo veramente sicuri che l’indipendenza sia così insensata e antistorica? Se veramente lo fosse perché l’Italia non ci rinuncia e diventa una regione autonoma della Germania? Perché l’Italia non rinuncia gioiosamente alla propria lingua, alla propria cultura, al proprio parlamento, alla proprio nazionale di calcio e così via? Quando si parla di rinunciare all’indipendenza un italiano non deve pensare alla Sardegna, che l’indipendenza non ce l’ha, ma all’Italia. Dopo aver pensato molto ci dica se è disposto a rinunciare a questa anacronistica istituzione. Siamo noi sardi che poniamo a voi la domanda: “voi che ce l’avete, voi che potete, perché non rinunciate”?

L’idea indipendentista non rischia di essere superata nello stesso modo in cui è ormai evidentemente superato il momento storico da cui essa era nata, rimanendo così più un sogno romantico di pochi che un bisogno collettivo? O lei pensa che non di sogno si tratti, ma di una possibilità reale?

Non credo sia corretto dire che c’è una data di nascita e di morte dell’idea indipendentista. Se uno guarda alla storia della Sardegna vede che questa, con i suoi alti e bassi, è stata continuamente percorsa e scossa dalla necessità di affermare la nazione sarda, la sua esistenza nel mondo. Una necessità che in alcuni periodi della storia si è realizzata e che preme nella testa dei sardi ogni volta che vedono un nuraghe, parlano di Eleonora d’Arbarée o Giovanni Maria Angioy. C’è una sorta di costante esistenziale dei sardi che non può essere ridotta né ai travagli del romanticismo europeo né all’utopia di pochi. La realtà è che la Sardegna, per le sue caratteristiche storiche, geografiche, culturali potrebbe facilmente essere indipendente. Bisogna far ritornare ai sardi l’autostima e la voglia di esistere.

A fronte di un’indipendenza politica, qual è il progetto di società per la Sardegna, sia dal punto di vista dei rapporti economici che sociali, proposto dall’iRS?

L’indipendenza non è un frutto maturo che cade d’improvviso fra le mani di un ignaro passante: l’indipendenza è nel cammino che si fa per arrivarci. Ciò significa che bisogna iniziare a costruirla oggi. E dal punto di vista socioeconomico una delle questioni centrali è che la società sarda odierna è una società di consumatori. Una società che consuma ciò che gli altri producono ma non produce per sé, o forse non produce del tutto. Questa situazione ha cause storiche precise, legate anche ad una industrializzazione dissennata, staccata dall’esigenze del territorio. Ma al di là del passato il punto è come riavviare la produzione e come ricreare un mercato interno alla Sardegna che sia il primo luogo di sfogo di ciò che i sardi producono. iRS pensa che si potrebbe agire su quattro leve: fiscalità, energia, infrastrutture, ricerca. Oggigiorno produrre in Sardegna è più caro, si stima intorno al 20% in più che in Italia. È evidente che ciò frena non solo la competitività dei prodotti ma la stessa possibilità di fare impresa. Il punto è che questo “gap” ha cause strutturali (energia, insularità, trasporti). Già questo basterebbe per legittimare una fiscalità speciale se non totalmente diversa per la Sardegna. Il modello irlandese, pur con tutti i suoi limiti, è indicativo di come lavorando sulle leve fiscali si possa rilanciare la produzione, l’occupazione, la crescita dei salari. L’energia dicevamo: in Sardegna la si produce (le centrali termoelettriche di Porto Torres, le raffinerie petrolifere di Sarroch) eppure la si paga di più. Questo è semplicemente insensato, oltre che ingiusto, e richiede un deciso intervento politico a tutela sia di chi vuol produrre che di chi vuol consumare. Si pensi solo che in Sardegna non c’è il metano e questo fa sì che le tariffe del gas siano mediamente più alte che in Italia. Come si vede la vita quotidiana di chi vive in Sardegna è talmente pesante che meriterebbe un intervento politico forte da parte della classe dirigente sarda nei confronti dello Stato. E in un’ottica indipendentista meriterebbe il lancio di una politica dell’energia alternativa, in particolare quella solare, su misura per la Sardegna. L’idea di una potenziale autosufficienza energetica della Sardegna attraverso il solare non è di un indipendentista sardo ma del premio Nobel italiano Carlo Rubbia (il che non esclude che Rubbia possa essere divenuto indipendentista sardo, cosa della quale saremmo felici e onorati). E qui entra in gioco la ricerca: già oggi se ne fa e di alto livello, come al CRS4, ma pare che la politica sia sorda. Non solo, la classe politica sarda pare sia anche cieca, e non veda quello che è ormai sotto gli occhi di tutti: ovvero che lo Stato italiano in 200 anni non ha mai avuto interesse a fare delle vere infrastrutture per i sardi, a garantire la loro connessione interna così come con il mondo. Si potrebbe insistere sul nesso fra un turismo e valorizzazione dei beni culturali. Si potrebbe rimarcare ancora una volta lo scandaloso “sequestro” di sedici anni di tasse dei sardi da parte dello Stato, tasse che servirebbero alla Sardegna per garantire dei servizi sociali decenti a partire dalla sanità, ai servizi, all’assistenza ai più deboli, alla cura del territorio. Si pensi: la Sardegna è sopravvissuta negli ultimi sedici anni al sequestro dei suoi soldi e a una politica del lavoro disastrosa, che in Sardegna ha creato solo assistenzialismo o cassa integrazione. È sopravvissuta, tra l’altro, alla continua sottrazione della prima materia prima: i giovani che continuano a emigrare e a portare ricchezza e intelligenza altrove. Insomma ha già superato il peggior test di indipendenza economica a cui una nazione può essere sottoposta! Ma al di là di tutto ciò quello che iRS sottolinea è che c’è bisogno di ricostruire un’etica collettiva. Un’etica della convivenza, che dissolva l’invidia autolesionista. Un’etica del lavoro, che ridia valore al far bene le proprie cose. Un’etica sociale, che faccia dell’onestà, del merito, della solidarietà dei valori di fondo. Un’etica politica, quella per cui il bene della comunità viene prima degli interessi egoistici. Solo ricreando un’etica collettiva, un senso di unità fondato sulla comune partecipazione alla realizzazione della Repubblica di Sardegna, si può sperare di mettere un argine alle ingiustizie e alle insensatezze che dominano l’economia sarda.

Dagli anni 60 in poi, lo sviluppo in campo imprenditoriale e economico della Sardegna, è stato segnato da scelte di politica nazionale e internazionale, piuttosto che da proposte e attività nate sul territorio. Come si sono posti al riguardo i vari movimenti ispirati all’indipendentismo? Non essere riusciti a evitare o almeno arginare la colonizzazione economica, politica e, in parte, anche militare, non è il sintomo di una impotenza e incapacità di questi movimenti d’incidere in concreto sulla realtà dei fatti?

Penso che su questo più che di responsabilità dell’indipendentismo si debba parlare di responsabilità dell’autonomismo. L’autonomismo è nato partendo dal presupposto che i sardi erano poveri, arretrati, falliti e che la loro unica possibilità di salvezza era dimenticarsi la loro diversità nazionale, ammettere di essere incapaci di produrre una propria economia e chiedere aiuto al salvatore di turno, ovvero lo Stato italiano che doveva stanziare una somma immane e indicare la strada per l’industrializzazione forzata dell’isola. Ironicamente quel piano, fallito in partenza, si chiamava “la Rinascita”. È interessante che negli stessi anni l’unico che parve accorgersi che il futuro della Sardegna si sarebbe giocato sul turismo, sulla capacità di conciliare salvaguardia dell’ambiente, interventi architettonici di qualità, valorizzazione della cultura sarda fu l’architetto Antonio Simon Mossa, uno dei padri dell’indipendentismo moderno. Morì inascoltato, o apertamente osteggiato, agli inizia degli anni ’70.

Come docente di semiotica, oltre che come sardo, a cosa attribuisce il successo che la bandiera della Sardegna va riscuotendo? Come possono interpretarsi i motivi che l’hanno trasformata da simbolo identitario di un popolo a simbolo alla moda, così da porlo alla stregua di un qualunque altro bene di consumo? Se volessimo interpretare questo fenomeno come il segno di una società consumistica che banalizza e fagocita tutto, non c’è il rischio che anche i sentimenti che stanno dietro alla vostra bandiera possano vanificarsi dietro un simbolo diventato un semplice simulacro?

Il tema della bandiera è spinoso. Io gli ho dedicato un intero libro, una ricerca storica e semiotica intitolata La vera storia della bandiera dei sardi, pubblicato nel 2007. Il punto nodale è che oggigiorno i Quattro Mori, che sono una bandiera arrivata con l’invasione aragonese e la perdita dell’indipendenza medievale, significano tutto e niente. Sono sbandierati da chiunque per indicare un generico sentimento di sardità o di provenienza geografica. Li sbandierano i fascisti italiani come i rivoluzionari comunisti, il centrodestra come il centrosinistra, e così via discorrendo. Ora la questione può a prima vista stupire ma se si guarda la storia della bandiera ci si accorge che i Quattro Mori hanno sempre simbolizzato il connubio fra orgoglio e integrazione, fra la sudditanza ad un potere esterno e un sentimento nostalgico (ma politicamente inoffensivo) del proprio essere sardi. Per contro i sardi, nel momento di maggiore unità e indipendenza, in uno dei momenti di più chiara definizione di una loro coscienza nazionale, avevano un’altra bandiera: un Albero deradicato verde in campo bianco. Un Albero la cui sconfitta nel 1409 corrisponde alla perdita di libertà dei sardi. iRS, dopo aver usato entrambe le bandiere, ha deciso di ripartire da lì, dall’Albero deradicato, nella convinzione che una coscienza indipendentista vincente e umanamente seria si possa costruire solo facendo scelte chiare.

In un’epoca in cui nel mondo si tende, sia tra la gente comune che tra gli Stati, ad adottare l’uso dell’Inglese quale lingua unica per la comunicazione, non le sembra che adottare la lingua sarda anche per comunicare con il resto d’Italia, come fate voi dei movimenti indipendentisti, sia un atteggiamento un po’ snob o, peggio, un po’ presuntuoso e, che, invece di aumentare i consensi alla causa sarda, rischi, al contrario, di ghettizzarla?

Se qualcuno vuole adottare la lingua sarda per parlare con gli italiani non è né presuntuoso né indipendentista, è semplicemente confuso! La Sardegna indipendente sarà una terra plurilingue in cui si impareranno almeno quattro lingue. Fra queste lingue ci sarà di certo il fondamentale inglese ma non si vede perché non ci debba essere il sardo, che oltre ad essere (come l’italiano) una lingua romanza (insegnata in tante università in giro per il mondo) è anche, da almeno un millennio, la lingua dei sardi.

*Fotografia di Ivan Piredda

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Isgàrrica s’artìculu: 2008-10-25 – Il Giornale intervista Franciscu Sedda

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