L’immaginazione contro la guerra perpetua

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di Franciscu Sedda

Paul Valéry, riflettendo a partire dall’impressione suscitatagli da guerre lontane che improvvisamente sentiva vicine, prediceva l’avvento di un nuovo mondo interconnesso a cui necessariamente avrebbe dovuto far seguito, pena gravi catastrofi, una nuova politica. Eravamo negli anni ’30 del Novecento quando il poeta e saggista francese rivolgeva i suoi sguardi sulle guerre di fine ‘800 fra Cina e Giappone e fra Usa e Spagna per Cuba, Portorico e le Filippine: guerre relativamente limitate e di modesta rilevanza che tuttavia gli apparivano come l’inaugurazione di una nuova epoca in cui, diceva lui stesso, “nulla più si farà che non vi sia coinvolto il mondo intero”. Del resto egli vedeva la sua impressione confermata dalla prima delle due guerre “mondiali”, ovvero uno di quei due grandi traumi politici e sociali che avrebbero fatto drammaticamente capire a tutti gli esseri umani quanto il mondo fosse diventato davvero piccolo e, paradossalmente, unito. Unito dalla sua finitezza, dal suo essere ormai una sorta di spazio chiuso, una sfera in cui tutto si influenza e riecheggia. Valéry aveva intravisto con lungimiranza questo mutamento strutturale delle relazioni planetarie ed i rischi ad esso connessi. In particolar modo il pericolo che in un mondo così instabile a dominare fosse la logica dell’evento fine a se stesso, dell’azione istintiva che risponde ad un’azione istintiva precedente che rispondeva ad un’altra azione anteriore e così via, in un domino che si trasforma in una spirale di caos e violenza apparentemente inarrestabile. Tuttavia i suoi moniti e i suoi appelli alla creatività giacciono inascoltati. Il mondo complesso è arrivato a compimento, è il nostro, ma della “nuova politica” c’è ben poca traccia. Il tempo delle reti e delle catene di effetti a distanza prima di aver connesso le intelligenze ha portato a drammatiche afasie ed incomprensioni e a una contemporanea frammentazione e intensificazione della guerra. Del resto la soluzione, se c’è, non sta nostalgicamente indietro o fuori da questa realtà reticolare ma davanti a noi, al suo interno. Questo mondo, si dice, è giunto ad un punto di svolta: non c’è più la guerra classica, fatta di corpi che fisicamente si mischiano in uno spazio-tempo limitato e definito, ma c’è una guerra continua e incessante benché pulviscolare. Una guerra “nuova” che non si è scordata quella precedente ma l’ha inglobata trasformandola, rendendo le cose ancora più difficili. E in effetti siamo, quantomeno, in una situazione di ambiguità, nel tempo della guerra permanente a distanza. Il che significa un esserci e non esserci al contempo. Non ci siamo perché la nostra esistenza quotidiana e lo spazio fisico in cui viviamo non sono direttamente esposti ad una situazione percepibile classicamente come “guerra”, ma ci siamo perché il mondo che abitiamo e da cui non possiamo ritrarci è saturo di guerre. Apparati di Stato a parte, sono soprattutto i media che rendono la guerra presente. Mostrando, occultando, ampliando o sminuendo la espongono agli “amici” e ai “nemici”. Organizzando in diretta lo sguardo, il sapere e il senso di ciò che avviene essi agiscono tatticamente e strategicamente. I media sono dunque parte attiva del conflitto proprio perché non sono né il semplice strumento di un potere politico e militare esterno che li manovra, né sono essi stessi, da soli, capaci di determinare le guerre. Tuttavia sono una parte, importantissima, del gioco sociale: giocano e sono giocati. È un rapporto simbiotico fra società, guerra, media e corpi. I mezzi di comunicazione di massa sono divenuti la nostra pelle, contemporaneamente i nostri corpi – individuali e sociali – espansi ed estesi da questi media, sono divenuti iper-sensibili. Appunto, siamo sempre con i nervi a fior di pelle ed il fiato sul collo. Esposti a tutte le scosse e gli impulsi che il mondo circostante da ogni parte ci invia, stentiamo ad essere in controllo del senso di ciò che ci accade attorno e delle variazioni di umore che inevitabilmente ciò ci provoca. Mentre i media ci forniscono (o vorrebbero fornirci) il senso del mondo noi ci sentiamo sempre più fragili, scoperti, vulnerabili. *Ora, uno dei paradossi della guerra “classica” è stata la contrazione dello spazio fra immaginazione e azione. Jurij Lotman, studioso russo della cultura, raccontando la sua partecipazione alla seconda guerra mondiale lo ricordava candidamente: in guerra l’unico modo per salvarsi dalla paura, dal dolore di un’attesa carica di un’immaginazione sofferente, era quello di gettarsi nell’azione e smettere di pensare. Il mondo di oggi sembra aver esteso e generalizzato questo comportamento. Che cos’è la “guerra preventiva” se non un tentativo di abbattere l’attesa e vincere l’insopportabilità della paura? Cos’è un attentato suicida se non l’abolizione di uno spazio di creatività alternativa, di una differente immaginazione, di un diverso modo di uscire dal dolore, dalla rabbia, dalla sofferenza? L’assuefazione all’atto violento sembra essere una lotta generalizzata contro la capacità di saper soffrire e saper creare. Davanti alla vita, densa di un inscindibile rapporto fra gioia e dolore, e contro lo sforzo elaborativo che risolve la paura costruendo una nuova realtà, si afferma il gesto violento: come colui che non riuscendo a sopportare l’attesa della morte decidesse di accelerarne il compimento. La paura si insinua laddove si incrina il rapporto fra la realtà percepita e l’abitudine quotidiana. Noi che viviamo questo mondo reticolare e interdipendente, così instabile e imprevedibile, non ci siamo ancora abituati a percepire questo mutamento come una risorsa. Anzi, poteri e governi costruiscono su questi umori negativi il sentimento di una “minaccia” costante e spesso immaginaria (come le famose “armi di distruzione di massa” irachene) che merita di essere colpita in anticipo. Dopo la caccia alla streghe rischiamo la generalizzata caccia ai fantasmi. Il legittimo senso di sicurezza di ciascuno diventa la chiave strumentale per politiche repressive che comprimono gli spazi di dialogo creativo fra civiltà, religioni, culture, popoli. Davanti al dolore e alla paura coloro che si definiscono come portatori della “Cultura” non riescono ad elaborare molto di più che banali stereotipi sull’alterità malefica che li circonda e su nemici preconfezionati. Gli appelli di Bush contro “il Male”, Aznar che un attimo dopo l’attentato di Madrid già accusa categoricamente i “separatisti” baschi, gli iracheni che non fanno distinzioni fra “occidentali” rapendo e uccidendo anche quelli che vorrebbero provare ad aiutarli: uno sconfortante livellamento verso il basso, una sconcertante incapacità di guardare alle sfumature, di valutare le differenze, di vedere il mondo in modo diverso anche nei momenti più difficili, rende l’aria irrespirabile e addensa di nubi l’orizzonte. Certo, non sarà appellandosi semplicemente alla “comprensione” che si potrà fare un passo verso una nuova politica: come disse infatti un antico persiano, “la più odiosa fra le pene umane sta nel comprendere molto senza potere nulla”. Quando dunque si invoca una nuova immaginazione la si invoca a tutto tondo: la si invoca sapendo che l’immaginazione non è sempre e solo positiva, che essa è il motore della paura tanto quanto dell’entusiasmo. Nemmeno la si invoca nella sua astrattezza, come se fosse pura fantasia: essa è immaginazione di mondi ma deve essere anche invenzione di mezzi e modi per applicare ciò che si è pensato. E infine nemmeno la si invoca come qualcosa di scisso dall’azione: non basta più invocare l’immaginazione al potere ma serve più che mai dare prova, con un agire virtuoso, del potere dell’immaginazione. Quando le parole divengono promesse di azioni giuste e le azioni incarnazioni di promesse dense di senso allora esse possono combinarsi e moltiplicare reciprocamente la loro efficacia. Abituandosi a giocare con la realtà, a cambiarla quotidianamente, ci si abitua a rifiutare la violenza e a non aver paura dell’imprevedibile.

02/04/2005

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Isgàrrica s’artìculu: 2005-04-02 – L’immaginazione contro la guerra perpetua

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